Quando il design dimentica l’ospite: l’ego dell’architetto in hotel

Quando il design dimentica l’ospite: l’ego dell’architetto in hotel

L’ego dell’architetto non deve superare i desideri o le esigenze del cliente nel processo di progettazione. Il design deve essere dedito alle esigenze di chi lo vive, non appagare solo chi lo ha concepito. Ma troppo spesso non avviene così

Fino a qualche tempo fa l’offerta di ospitalità in Italia era racchiusa principalmente in tre grandi gruppi che potremmo sintetizzare così: i business hotel, di diverse categorie, ma che avevano tutti lo stesso stile, attraverso il quale era anche ben identificabile l’anno di realizzazione. Bastava dare un’occhiata ai materiali, ai colori dei bagni, alle ante degli armadi. Molti di essi avevano persino gli stessi odori: quelli delle lavanderie industriali, dei detersivi e delle profumazioni standard.

A fianco di questi si trovavano gli hotel di catena che ci rassicuravano con i loro standard: gli stessi arredi, gli stessi colori e persino gli stessi servizi. Che fossero nei pressi di un aeroporto, all’interno di un palazzo storico, su una grande via di collegamento oppure al mare o in mezzo alla campagna, sapevi sempre cosa aspettarti.

Poi c’erano tanti altri esempi di hotel creati a immagine e somiglianza dalla proprietà, magari qualche azzardo dell’estroso amico architetto, dove non potevano mancare le sale riunioni nel seminterrato, con a fianco la palestra e a volte quella che impropriamente veniva chiamata SPA (mi piace parlare al passato, anche se…). E qui si chiudeva il panorama.  

Riqualificare le strutture? Si, ma per gli ospiti

In questi ultimi anni stiamo assistendo ad una progressiva quanto incisiva riqualificazione delle strutture alberghiere; il mercato immobiliare legato all’ospitalità è in grande fermento e come spesso accade, quando c’è una tendenza positiva ed in crescita costante, diventa un’attrazione troppo forte per chiunque. Ecco quindi presentarsi alla porta consulenti (tanti) e architetti, o designers (troppi) che non avendo altro da fare si inventano professionisti dell’ospitalità.

Ho la fortuna di viaggiare molto in Italia e all’estero, per lavoro e non solo, e durante i miei viaggi ne approfitto per andare a visitare nuove aperture, alberghi molto pubblicizzati, per capire e studiare. Molto spesso, però, la prima parola che mi viene in mente durante la visita è: “perché”? Perché un hotel nuovo di zecca, costato milioni, riesce a essere già scomodo dal primo sguardo? Perché tanti architetti e designer, anche di fama, sembrano dimenticare che un albergo non è un set fotografico ma un organismo vivo, che funziona 24 ore su 24, e che deve accogliere, facilitare, accompagnare?

La verità – e mi dispiace dirlo, ma qualcuno deve farlo – è che molti architetti disegnano per sé stessi, non per gli ospiti. Progettano per finire su riviste patinate, per stupire altri architetti, per alimentare il proprio ego. Il cliente finale, cioè chi dovrà dormire, lavorare, rilassarsi o semplicemente aprire una valigia in quella stanza, è spesso dimenticato. Peggio: ignorato.

Così nascono camere dove è impossibile appoggiare due trolley senza inciampare in un pouf “scenografico”; lavandini che sembrano opere d’arte ma schizzano acqua ovunque; corridoi bui “per creare atmosfera” in cui gli ospiti girano col flash del telefono acceso; impianti domotici che confondono anche un ingegnere informatico e che rendono con tutte le spie e i sensori luminosi la camera un albero di Natale perenne rendendo quasi inutili le tende oscuranti… Tutto bello da vedere, ma faticoso da vivere.

Design emozionale o comodità per l’utente?

Eppure progettare un hotel non dovrebbe significare stupire a ogni costo, ma ascoltare. Chi ospita, chi lavora ogni giorno in struttura, e – soprattutto – chi soggiorna. Il design dell’ospitalità è un mestiere delicato, che richiede cultura del servizio, esperienza concreta, e una buona dose di umiltà. Non si può improvvisare.

E quindi sì, la domanda che mi faccio entrando in certi alberghi è sempre la stessa: perché? Perché complicare, quando si potrebbe semplificare con eleganza? Perché cercare l’effetto “wow” a tutti i costi, quando l’unico vero effetto da inseguire dovrebbe essere un “sto bene, qui”?

Il paradosso è che molti di questi progetti vengono presentati come “esperienze uniche”, “ospitalità nuova”, “design emozionale”. Ma cosa c’è di emozionante in un’interfaccia touch che nessuno sa usare, in una doccia dove non capisco da dove uscirà l’acqua e se sarà calda o fredda, o in un’illuminazione così diffusa da rendere impossibile truccarsi o radersi? Spesso si confonde il concetto di identità con quello di eccentricità. Si cerca il dettaglio instagrammabile, il pezzo di arredo firmato, il rivestimento “mai visto prima” senza chiedersi se quelle scelte abbiano senso nel contesto, nella destinazione, nel tipo di cliente.

E qui il problema si sposta anche sulla committenza. Perché troppo spesso, purtroppo, chi investe non ha gli strumenti per distinguere un progetto ben pensato da uno solo appariscente. Si affida al nome, alla brochure, al render. Ma un hotel, prima ancora di essere bello, deve essere intelligente. E per esserlo, serve un lavoro serio, multidisciplinare, che coinvolga chi l’ospitalità la conosce, la pratica, la vive ogni giorno. Perché l’estetica da sola non basta, anzi: se mal gestita, può diventare un boomerang.

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