Un meritato premio a un italo americano che lavora nella ristorazione statunitense

Un meritato premio a un italo americano che lavora nella ristorazione statunitense

Nei giorni scorsi Jeffrey Root, cittadino statunitense ma originario dell’appennino bolognese,  ha ricevuto un grandissimo riconoscimento: quello di essere stato uno dei 10 migliori fornitori per la Sysco Canada.  Per chi non lo sapesse Sysco è il più grande distributore di ristorazione nel mondo

 

Grazie alla pubblicità su varie emittenti, marketing digitale, creatività culinaria e assistenza ai loro clienti ristoratori la Pasta Montana, marchio per il quale Jeffrey Root è Vice Presidente, si è presentata come un fortissimo partner di qualità, sempre disponibile nei confronti dei ristoratori. Questo riconoscimento – il più prestigioso ricevuto finora – pone la Pasta Montana in una categoria di prima livello nel mondo della ristorazione nord americana. Abbiamo incontrato Jeffrey Root, americano, o meglio, italo-americano, che spesso passa da Bologna per salutare gli amici che ha qui, in primis lo chef Vincenzo Vottero. Ne parliamo con lui nella Giornata mondiale della Pasta!

D. Vorremmo inquadrare la tua persona, i tuoi legami con Bologna e con l’Appennino. Da che generazione siete partiti negli Stati Uniti?

D. La famiglia Bernardi proviene da Montese, Montespecchio: una zona 100% emiliana. Il mio bisnonno partì per l’America ai primi del ’900, e aprì una salumeria in un paesino chiamato Touluca, in Illinois. Dopo la salumeria, nel ’33, aprì un ristorante-spaghetteria per gli altri italiani immigrati, in cui serviva soprattutto cucina bolognese: ragù, tortellini, lasagne. Poi acquisì il ristorante del suo maggior concorrente. Mio nonno lavorava in entrambi i locali, che facevano dei numeri strepitosi: non c’erano ristoranti simili nel raggio di due ore di macchina.

D. E il ragù lo sapevano fare?

D. Certo! Di tutti i ragù che ho assaggiato in America, quello era il più simile al vostro. Poi dopo dieci o vent’anni, alcuni clienti venivano a chiedere: “Perché non fate i tortellini anche per i supermercati, dato che veniamo da lontano per mangiarli?”. A quel punto, mio nonno andò a Milano a comprare una macchina per i tortellini che ne faceva due al secondo. Tornato a Touluca ha cominciato a produrli ed erano abbastanza buoni: l’attività è cresciuta, diventando la più grande fabbrica di pasta surgelata in America. Poi, alla fine, la vendette ad un’azienda molto più grande…

D. Tu hai sempre parlato italiano…

R. Io sono cresciuto a Touluca, poi mi sono iscritto all’Università di Lingua e Letteratura italiana, in Arizona. Crescendo sentivo il dialetto bolognese, quindi avevo già l’orecchio per l’italiano. Quando ho iniziato l’Università, quello che avevo ascoltato negli anni, come i vecchietti riuniti davanti al bar, aveva sempre più senso. Mentre ero all’Università sono venuto in Italia, a Firenze, a studiare per un’estate. Prima però mi ero fermato a Gaggio Montano a trovare dei parenti. Mi sono trovato così bene e ho imparato così tanto in nove giorni lì, che quando a Firenze mi sono presentato al professore, lui mi ha detto: “Io non conosco questo Jeffrey: prima che tu partissi non parlavi così bene”. Davo una mano ai miei parenti in cucina, che avevano due pensioni: era il contesto più naturale per me, che sono cresciuto nella ristorazione; quindi, invece di andare all’Università, tornavo a Gaggio, perché imparavo di più: non solo la lingua, ma anche la cucina bolognese, della quale mi ero innamorato! Tornato in America, mi sono laureato, ho venduto tutte le mie cose e ho comprato un biglietto di sola andata per l’Emilia.

D. Questo tuo racconto è veramente unico, fantastico! Quindi sei stato per tre anni a Gaggio?

R. Sì, e facevo vari lavori: un’estate ho raccolto le patate a Zola; ho dato una mano ad imbiancare case, ville ed un hotel; poi ho lavorato da un carissimo amico, Maurizio Fini, che ha un ristorante a Rocca di Roffeno e al tempo aveva un rifugio al Corno alle Scale. Insomma, ho fatto un po’ di tutto perché volevo imparare la lingua in tutti gli ambiti possibili, il linguaggio tecnico, però tornavo sempre volentieri in cucina.

D. L’amore per la cucina. Perché tu sai anche preparare dei piatti?

R. Certo! Ho imparato a fare a mano tortellini, tortelloni, agnolotti, il ragù, le lasagne. Avevo una maestra, Maria, che faceva anche lei Bernardi di cognome. Mi ha insegnato un sacco di cose, cioè, oltre alla cucina, anche lezioni di vita.

D. Una bellissima storia. Questo bagaglio importante che ti ha fatto sentire nelle tue origini, nella tua terra, sei riuscito a trasportarlo però negli Stati Uniti.

R. Dopo che sono tornato in America, nel 1999, ho deciso di tornare in Florida, dove ho fatto il Master in Letteratura italiana e insegnavo anche l’italiano. Poi ho deciso di fare il dottorato in Letteratura italiana medievale in Wisconsin, e ho approfondito anche il cinema del periodo post bellico e la letteratura partigiana, che fa parte della storia delle montagne e di questa zona, alla quale tengo ancora molto.

D. Entriamo un po’ nel momento in cui tu hai terminato gli studi con queste esperienze molto importanti e qualificanti per te. A che età cominci a lavorare nel tuo attuale settore?

R. Facevo spesso da mangiare per i miei colleghi universitari e qualcuno mi diceva: “Jeffrey, guarda che sei bravissimo in cucina, perché non apri un ristorante?”. Così nel 2005 ho lasciato l’Università e sono tornato in Arizona, dove ho cominciato a lavorare per un’agenzia che rappresenta varie aziende del food, girando in macchina con i prodotti, bussando alle porte dei ristoranti. Poi mi hanno trovato quelli della De Cecco; sono andato a Manhattan, dove c’è il loro ufficio, e ho fatto il colloquio, sapendo l’italiano, ma ancora di più sapendo cucinare. Sapevo cuocere e parlare della pasta, trasmettere i principi della pasta, anche come si risparmiano i soldi per la pasta, perché in America il discorso è una questione anche di food cost, non solo di qualità. Ho lavorato cinque anni con De Cecco, un’esperienza bellissima perché ho conosciuto tanti clienti in America, dove il brand è popolarissimo. Alla fine l’azienda era poco orientata al food service e alla ristorazione e più focalizzata al retail e alla promozione del brand, quindi ero un po’ scontento. Alla fine del 2016 ad una fiera mi avvicinò il vice presidente di Pasta Montana, dicendomi: “Abbiamo sentito parlare di te, perché sei il Re della pasta qui in America”. Mi ero fatto un bel nome, una discreta fama in America, così ho cercato di dare una spinta a questo piccolo pastificio, che ne aveva bisogno.

D. Per la De Cecco è stata una perdita importante…

R. Beh, direi di sì. Perché alla fine io adesso sono vice presidente di Pasta Montana e sono responsabile di decisioni abbastanza importanti per l’azienda, in particolar modo quelle legate al marketing, in cui mi occupo del messaggio: invece di vendere la pasta, io racconto una storia d’amore.

D. Dopo la Montana, hai mantenuto tuoi legami mantenuti con Bologna e l’Appennino?

R. Dopo io ho pensato: “come posso restituire a Bologna quello che mi ha regalato come fortuna professionale?” Sono sempre stato amico di Vincenzo Vottero, di Bologna; un giorno mi ha detto: “con tutto quello che fai nel tuo settore, perché non ci dai una spinta lì in America, diffondendo la cucina bolognese?”. In effetti, io lo facevo già, perché per Pasta Montana, prima di diventare vice presidente del marketing, ero uno chef e cercavo sempre di fare piatti tipici bolognesi ed emiliani.

D. Perché fate anche tagliatelle? Ed ora, dopo questo importante riconoscimento?

R. La mia esperienza in Italia mi da sempre un vantaggio perchè riesco immediatamente a creare un legame affidabile con ristoratori italiani.  Questo è molto utile perché come sappiamo i ristoratori sono gente appassionata e punta sulla qualità.  Non è facile guadagnare la loro fiducia.

Da Pasta Montana facevo le fettuccine ma anche dei piatti tipici bolognesi, perché gli americani amano molto la cucina italiana, ma confondono quella più “macro” con quella “micro” emiliana e bolognese, e io ho visto un’opportunità per distinguerle. Poi, grazie a Vincenzo Vottero (foto a fianco) e all’Ascom, sono stato scelto come ambasciatore della cucina bolognese, non tanto perché la conosco intimamente, ma perché ho le risorse, i contatti, per diffonderla e per creare un punto di connessione in America per le aziende emiliane, che possono entrare nel mercato e fargli conoscere i loro prodotti. Quindi, è questo il mio ruolo come ambasciatore e lo prendo molto seriamente, non solo per il legame emotivo e spirituale che ho con questa città, ma anche per una questione di lavoro ed economica: sia per gli americani che vengono a gustare la cucina bolognese, che per i bolognesi che possono andare in America e trovare un po’ di successo professionale.

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